Descrizione
Descrizione Breve
Asolo lungo la statale n. 248, S. Zenone degli Ezzelini si estende su una superficie di circa 20 kmq tra rilievi collinari, piccole valli ed aree pianeggianti. II suo territorio fu abitato in tempi remoti, come attestano numerosi reperti archeologici appartenenti a diverse epoche preistoriche a storiche. Parte della marca trevigiana, dal sec. X il territorio di S. Zenone appartenne ai vescovi di Treviso ed alla fine del XII sec. divenne possesso di Ezzelino da Romano il Monaco, che lo trasmise nel 1223 al figlio Ezzelino III detto il Tiranno. Questi, a causa della sua politica espansionistica, ebbe molti nemici a nel 1259 fu sconfitto a ferito a morte; il fratello Alberico, suo alleato, si rifugiò nel castello di San Zenone dove, dopo aver subito 1'assedio di una lega di feudatari, venne trucidato con tutta la famiglia. Dell'antico castello, ricostruito a nuovamente distrutto, rimane la torre, simbolo del paese. Nei pressi della torre sorge l'ottocentesco Santuario della Madonna del Monte (meglio conosciuto come "Chiesetta Rossa") dal cui colle si gode di un incantevole panorama. Una pala di Jacopo da Ponte, un crocifisso ligneo rinascimentale, statue dello scultore sanzenonese Francesco Rebesco ed affreschi del pittore Noè Bordignon adornano la chiesa parrocchiale di S. Zenone. Del patrimonio architettonico di S. Zenone risalgono al cinquecento la villa Tedesco e la villa Vignola, rimaneggiata nel settecento come la villa di Rovero, the è collocata al centro del paese di fronte al Municipio, mentre il località Sopracastello si può ammirare l'esterno di villa Rubelli.
Villa Rovero
Con una popolazione di poco più di seimila abitanti, San Zenone vanta l'attività di più di 400 ditte nel proprio territorio, a conferma di una vitalità economica in continua evoluzione, concentrata inizialmente nei settori manifatturiero, metalmeccanico, ed artigianale (ceramiche a mobili in stile) ma con un occhio di riguardo anche per il commercio ed il turismo. Più di cinquanta associazioni operanti negli ambiti sportivo, sociale, ricreativo, a culturale contribuiscono inoltre a rendere particolarmente ricco il calendario delle manifestazioni ed appuntamenti di folclore locale.
Gli Ezzelini
Re ZalÃn, forma locale per indicare Ezzelino il Tiranno (1194-1259) è il personaggio che identifica tutta la famiglia, nota ai piú come i Da Romano, presente per circa tre secoli in territorio asolano, infeudata dall'imperatore dei castelli di Onara e di Romano.
Nel 1223, Ezzelino il Monaco spartisce i suoi beni tra i figli Alberico ed Ezzelino il Tiranno. Il castello di S. Zenone venne assegnato ad Ezzelino. Da S. Zenone dipendevano i beni familiari ubicati in Liedolo, Crespano, Bessica, Pietrafosca, Loria, Ramon, Spineda di RÃese, Pagnano, Medolo, Oderzo, Fontanelle, Valdobbiadene, Godego, Castion, S. Martino di Lupari e tutto quanto sta a mattina del torrente Cismon, coi beni nel Feltrino e a Fonzaso, in Belluno e a Lentiai (Cesana), incluse le avogarie per conto del vescovo di Belluno, del Patriarca di Aquileia e del Monastero del Pero (Monastier).
Da qui, Ezzelino farà splendere la sua stella di abile stratega che lo vedranno impegnato contro i nobili di casa Camposampiero, Estensi, Sambonifacio e poi dominatore delle città del Veneto come Padova, Vicenza, Verona, Treviso, Belluno, Trento, con sconfinamento nella Lombardia, dove occupò Brescia. Divenne cosà il principale ghibellino dell'Alta Italia, ossia il vicario dell'imperatore Federico II, ma anche dopo la morte di questi continuò la sua politica, osteggiato dalla chiesa e da Venezia. Contro di lui fu indetta una crociata, ufficialmente perché non perseguiva gli eretici, ma praticamente perché era ghibellino. L'abbandono del lombardo Pelavicino dopo la conquista di Brescia, lo rese meno forte, tanto che nella marcia di avvicinamento a Milano, in favore di fuoriusciti milanesi, si scontro ad un guado dell'Adda, dove fu ferito e fatto prigioniero. Tradotto a Soncino vi morf perché, come si racconta, si strappò le bende dalle ferite.
Alberico, personaggio di taglia politica minore, pagò con la strage di S. Zenone le colpe del fratello. Politicamente aveva fallito la sua grande occasione: il Papa, con varie bolle, lo aveva scelto come strumento per oscurare Ezzelino, ma Alberico capi troppo tardi il gioco e si riconciliò col fratello.
Dopo le spartizioni dei beni, gli Ezzelini divennero sinonimo di diabolico e delle nefandezze commesse nel secolo XIII. Nacquero cosà fantasmi, storie atte a demonizzare, corredate da mille particolari. Nonostante ciò, sei secoli dopo, il primo consiglio comunale di S. Zenone italiana decideva di optare per l'attributo degli Ezzelini, riabilitando di fatto la famosa famiglia.
Ecelino il Balbo
Lo stemma di San Zenone degli Ezzelini
Stemma approvato il 18-12-1889. Il predicato Degli Ezzelini è stato deliberato dal consiglio comunale il 15-2-1867 e approvato con Regio Decreto 10-11-1867, n. 4098. Lo stemma di San Zenone degli Ezzelini è così descritto: "D'azzurro alla torre d'argento merlata alla ghibellina, cintata da capo e collo di struzzo d'argento, movente dalla torre, tenente col becco un ferro di cavallo dello stesso e crestato di rosso. Motto: "Finis Eccelinorum ". |
Descrizione estesa della storia di San Zenone
Parlare degli avvenimenti storici legati al territorio dell'attuale comune di San Zenone degli Ezzelini non è semplice e perciò ci limiteremo a ricordarli molto succintamente. Certamente (aspetto di questo territorio, in tempi remoti, doveva essere molto diverso dall'attuale, tuttavia, come lo confermano i numerosi reperti archeologici rinvenuti, doveva essere abitato già in epoche preistoriche. Infatti alcuni materiali litici ritrovati, quali raschiatoi e armi in pietra, fanno supporre (esistenza qui, tra 5.000 e 2.500 anni a.C., di una fabbrica neolitica. Gli studiosi dell'epoca preistorica del Trevigiano, fra cui primeggia la Faldani, affermano che nell'Asolano, in una zona ben delimitata lungo la fascia collinare, dovevano esistere importanti insediamenti umani, mentre mancavano nella zona di pianura per la probabile presenza di una fitta e rigogliosa foresta. Negli anni che vanno tra i 2.500 e i 1.700 a.C., compaiono in quest'area i Protoliguri, o Liguri antichi, detti anche Eneoliti, che perfezionano i loro strumenti in pietra e sono in grado anche di usare e di lavorare altri metalli. Ai Protoliguri poi, tra gli anni che vanno dal 1.700 al 900 a.C., si sostituivano gli Euganei, un popolo che forse discendeva dam altro precedente qui installatosi, finché, provenienti dall'Illida, giungevano i Paleoveneti che, cacciati gli Euganei, si stanziavano anche nell'Asolano. I Veneti sono dediti all'agricoltura, all'artigianato e al commercio, specie con gli Etruschi, dai quali probabilmente imparano le nuove tecniche per la lavorazione, anche artistica, del ferro e del bronzo. Sono d'indole pacifica, senza interessi espansionistici verso i territori occupati da altri con loro confinanti e con i quali cercano sempre di avere rapporti d'amicizia.
È appunto in un' atmosfera di amicizia che all'inizio del IV secolo a.C. i Veneti entrano in rapporto con i Romani, riconoscendo in questo popolo un ottimo alleato, sia sotto il profilo militare che quello economico. L'occasione d'incontro veniva offerta dall'esigenza di stringere un'alleanza contro i Galli Senoni, nel 390 a.C., e successivamente, nel 225 a.C., contro i Galli Insubri e Boi che minacciavano di invadere i loro territori. Le guerre che ne seguirono si conclusero con esito vittorioso e ciò rafforzò i legami fra i due popoli, al punto tale da indurre i Veneti a partecipare alle guerre contro Annibale che, sceso con il suo esercito dalle Alpi occidentali nella pianura Padana, minacciava l'intera penisola italia e la stessa Roma.
L'espansione romana verso Oriente poneva subito il problema della salvaguardia dei confini verso l'illiria La fondazione di Aquileia, avvenuta nell'ambito di un progetto più vasto nel 181 a.C., confermava quanto vasta era ormai Farea d'influenza di Roma nelle Venezie, testimoniata in tutto il Trevigiano, nonché nell'attuale territorio comunale di San Zenone degli Ezzelini e nell'Asolano. L'inclusione di questa vasta zona nel nuovo dominio di Roma veniva raggiunta nel 148 a.C., quando il console Spurio Postumio Libero dava inizio alla costruzione di una grande arteria stradale, la "Postumia", che univa Genova con Aquileia e passava m po' più a sud dell'Asolano. Questa grande strada consolare si rivelava subito di grande importanza, non solo per il transito delle legioni romane, che potevano accorrere in difesa dei territori minacciati e da essa attraversati, ma anche quale veicolo di penetrazione economica verso le regioni orientali. È per questo motivo che l'Asolano, ma zona di notevole rilevanza militare, veniva incluso nel grande disegno agrariomilitare delle "centuriazioni", i cui territori, cosi suddivisi, erano poi assegnati ai veterani per coltivarli e, naturalmente, difenderli.
La presenza di Roma nel territorio delfattuale comune di San Zenone degli Ezzelini è testimoniata dal ritrovamento di lapidi e di altro interessante materiale archeologico, fra cui molti ruderi di case che, per la salubrità e amenità del luogo e per l'esposizione al sole delle sue colline, i Latini hanno scelto di costruire qui anche per la vicinarza ad Asolo, la romana "Acelum" poi divenuta "municipiunt" e resa ancora più importante dopo la costruzione della "via Amelia" che la unisce a "Patavium".
La fine dell'Impero romano d'Occidente e l'arrivo in Italia di popoli barbari determinarono l'abbandono degli abitanti e il degrado economico dell'Asolano. Giunsero poi i Goti, i Visigoti e i Bizantini, finché nel 569, provenienti dal Friuli, calarono i Longobardi che, intuita l'importanza strategica e geografica di quest'area, la fortificarono, ponendo su ogni altura dominante i loro punti di vedetta. Anche il colle di San Zenone doveva essere stato utilizzato a tale scopo e la presenza qui di una chiesa fa pensare alla Fasoli che essa fosse inclusa nel disegno difensivo di quest'area, dove molti toponimi di origine longobarda sono presenti. Infatti questa antica pieve doveva sorgere sul colle san zenonese, in uno spazio in cui oggi il suo contorno ricorda quello del castello che i Da Romano, anni dopo, edificarono.
Il dominio dei Longobardi, anche su questi territori, durò due secoli e precisamente fino all'arrivo in Italia di Carlo Magno, che, chiamato da papa Adriano I°, sconfisse nel 776 e divenne signore dei loro possedimenti. I Franchi di Carlo conquistarono anche tutto il Trevigiano, quindi anche San Zenone, e lo inglobarono nella "Marca Veronesi'. II Comitato di Treviso divenne ben presto molto importante e pur non essendo m marchesato assunse il nome di "Marca Trevigiana", titolo che mantenne a lungo in molti documenti.
Il Cristianesimo può essere giunto qui contemporaneamente ad Asolo e la sua antica pieve, come sostiene il Melchiori, originariamente dipese fino non oltre al X° secolo da quella di Sant'Eulalia, in quanto nel 1152, nella Bolla di papa Bonifacio, si parla già della "plebem Sancti Zenonis" e dei beni ad essa pertinenti. Ciò conferma la dignità piovana e l'importanza che il paese aveva raggiunto rispetto a quelli vicini, tanto che poi gli Ezzelini costruivano qui tuo dei loro più potenti castelli di tutta la Marca Trevigiana. Si ha quindi ragione di ritenere che la dedicazione della chiesa a San Zenone, come viene precisato nella citata Bolla papale, e l'appartenenza della località al potente casato degli Ezzelini siano stati sicuramente all'origine del nome dell'attuale paese: San Zenone degli Ezzelini.
Soffermiamoci ora brevemente sulla potente famiglia dei Da Romano, che dominerà incontrastata per molto tempo sulla Marca Trevigiana, su gran parte del Veneto e della Lombardia ed evidenziò la crisi e la fine del feudalesimo. Fra coloro che nel 1036 discesero in Italia al seguito di Corrado il Salico e furono investiti di un feudo per i loro meriti verso l'Imperatore, vi fu un cavaliere, Etzel o Ezzelo, che ricevette in dono dal suo signore varie terre ai piedi del Grappa, fra Onara, San Zenone e Bassano, in quelle che oggi sono le provincie di Padova, Treviso e Vicenza. I suoi figli, Ezelo e Alberico, allargarono poi i loro possedimenti con l'astuzia e la forza. Da Alberico nacque Ezzelino I° da Romano, il Balbo, che partecipò alla II Crociata e fu alleato dei Comuni contro Federico Barbarossa. Suo figlio, Ezzelino II, il Monaco, alla morte del padre ereditò tutte le sue terre e divenne uno dei più autorevoli vassalli della Marca Trevigiana. Egli ebbe tre figli, Ezzelino III da Romano, Alberico e la figlia Cunizza celebrati con versi indimenticabili da Dante e ricordati e discussi da tanti cronisti e da tanti storici. Ezzelino II, ormai vecchio, si ritirò in un convento e divise le sue terre tra i figli Ezzelino III, il "Tiranno", e Alberico. A quell'epoca l'Italia era sconvolta dalle lotte fra guelfi e ghibellini e quando l'imperatore Federico II iniziò la sua lotta contro i Comuni e cercò in Italia fautori per la sua causa, Ezzelino, ambizioso e deciso a dare la scalata al potere, si schierò con lui. E non fu il solo che abbracciò la causa ghibellina: potenti personaggi di ricche famiglie, gruppi politici e intere città voltarono le spalle ai guelfi. Ezzelino, interessandosi alle proprie fortune, oltre à quelle del suo partito, approfittò delle gelosie delle varie fazioni venete per conquistare per sé nuovi territori, fortificò Bassano, aiutò i Trevigiani nella lotta contro Feltre e Belluno e venne a patti con i Da Camino, ai quali fu costretto a cedere alcuni castelli che, di li a poco, con l'astuzia e con la forza, riesci a riprendere. Quando nel 1236 venne nominato Vicario imperiale, il potere di Ezzelino parve incontrastabile. Fu allora che il Da Romano, dopo aver sconfitto i San Bonifacio, divenne signore assoluto di Verona, assogettò Vicenza e assalì Padova che gli si arrese; rivolse poi le sue armi contro il marchese Azzo d'Este e contro il suo antico nemico jacopo da Carrara, i Camposampiero, e conquistò Este e la zona degli Euganei, quindi, con l'aiuto delle truppe imperiali, piombò sui castelli dei suoi nemici personali e li fece radere al suolo. Per odio a Venezia, che lo combatteva, fece demolire l'antico convento di Sant'Ilario, quindi rivolse i suoi feroci attacchi contro Asolo e Montebelluna e assali Cèneda, quasi radendola al suolo.
Nel frattempo suo fratello Alberico, signore di San Zenone e dov'era il suo castello, occupava per proprio conto Treviso e all'epoca della caduta di Cèneda stava combattendo i ghibellini della Marca. Ma le città venete ed emiliane, in un quadro politico estremamente complesso, si riunivano in quella lega che doveva poi definitivamente sconfiggere i Da Romano. Mentre Ezzelino assediava Mantova con il concorso di tutte le sue truppe, Padova gli si ribellava e conquistava la sua libertà il 20 giugno 1256. Ezzelino però proseguiva il suo piano di conquiste e riuniva rotte le sue forze per invadere il Milanese. L'esercito avversario, sostenuto dai più potenti capi guelfi dell'Italia settentrionale, gli dava subito battaglia il 27 settembre 1259 e lo sconfiggeva, trascinandolo prigioniero e ferito nel castello di Soncino, nel Mantovano, dove undici giorni dopo, come raccontano le cronache dei tempo, moriva "essendosi strappato le bende in uno dei suoi eccessi d'ira furiosa". Intanto suo fratello Alberico aveva lasciato precipitosamente Treviso e si era rifugiato nel suo castello di San Zenone, da dove molestava i villaggi vicini con rapine e distruzioni. Ciò provocò lira dei Trevigiani e della lega guelfa, che, decisi più che mai ad "estirpare la mala pianta", assaltarono il castello. Per tre giorni Alberico tenne testa agli assalitori, ma il 26 agosto 1260, sopraffatto, fu costretto ad arrendersi e barbaramente ucciso con la sua famiglia. Le cronache dicono che, sotto gli occhi di Alberico, i sei figli maschi furono decapitati, la moglie con le due figlie bruciate vive e poi lui fatto morire attaccato alla coda di un cavallo in corsa.
Molti sono i libri che raccontano la storia degli Ezzelini, ma sono storie scritte da uomini di pane, storie di vinti. La figura di Ezzelino III da Romano, emblematica, discussa, di uomo valoroso e di politico fra i più accorti, anche se tra i più crudeli, è quella di un uomo del suo tempo e che oggi è oggetto dì attente ed approfondite analisi da parte di molti studiosi, che vedono in lui il precursore delle Signorie rinascimentali.
Dopo la tragica fine di questa potente famiglia, che aveva anche la cittadinanza padovana, nel 1314 San Zenone degli Ezzelini ed il suo territorio appartengono alla Marca Trevigiana, pur rimanendo soggetti all'antica pieve di Sant'Eulalia ("Pleds S.Lariae"), un organismo civile e religioso ormai in pieno decadimento.
Nel 1339 Venezia, a seguito della sua politica di espansione verso la Terraferma, occupa rotto l'Asolano e, nel riordino territoriale ed amministrativo della Marca Trevigiana, assegna San Zenone degli Ezzelini e la vicina località di Liedolo, prima appartenenti alla giurisdizione di Castelfranco Veneto, alla podesteria di Asolo. II dominio della Repubblica di San Marco porta nel Veneto un lungo periodo di pace e di relativo benessere, interrotto solo dalla guerra sostenuta dalla Serenissima contro i collegati della Lega di Cambrai.
Nel 1797, al termine della prima campagna d'Italia e in seguito al Trattato di Campoformio, Napoleone Buonaparte pone fine alla gloriosa Repubblica di Venezia e l'assegna allAustria. Seguono anni di altalenanti occupazioni francesi ed asburgiche, finché nel 1815, con la Pace di Vienna, tutto il Veneto cade sotto il dominio degli Asburgo e inglobato nel regno Lombardo-Veneto. Nel 1866, alla fine della terza guerra per l'indipendenza italiana, anche i Sanzenonesi, come rotti i Veneti, aderiscono plebiscitariamente al regno d'Italia; da allora la storia di questo Comune si fonde con quella di rotta la nazione.
Queste, per sommi capi, le vicende storiche legate al comune di San Zenone degli Ezzelini, ma accanto ad esse ve ne sono altre che ci vengono raccontate e testimoniate dalle chiese e dalle dimore patrizie edificate sul suo territorio. L'attuale chiesa parrocchiale di San Zenone venne costruita tra il 1860 e il 1870, dopo che la precedente, molto più antica, fu demolita per le precarie condizioni statiche ed il cattivo stato di conservazione. Essa non presenta particolari caratteristiche architettoniche, ma invece è interessante per il ciclo di affreschi che conserva. Sono un'opera del pittore di Castelfranco Veneto Noè Bordignon e si possono dividere in quattro gruppi: 1°) soffitto: "La carcerazione del B.Giordano Forzate nel castello di San Zenone", "L'Assunzione di Maria in cielo", "La gloria di San Zenone"; 2°) pareti laterali: "Gli Apostoli"; 3°) abside: "Il Giudizio Universale"; 4°) cappelle laterali e lunette della porta maggiore: "La Fede", "La Speranza" e la "Carità ".
Sul monte Castellaro, nei pressi della Torre del castello ezzeliniano e dove un tempo sorgeva l'antica "Cappella S.Mariae Rosse", vi è il Santuario della Madonna Rossa, meta di numerosi pellegrinaggi e molto noto per la fama taumaturgica della "Madonna Rossa". L'attuale struttura del sacro edificio risale al 1860, dopo che precedentemente era stato gravemente danneggiato da due violenti terremoti.
Degne di attenzione sono pure le numerose dimore patrizie edificate sul territorio comunale di San Zenone degli Ezzelini. La Villa di Rovero, costruita su un piccolo poggio nei primi decenni del 1600 dal Nob. Cristoforo Di Rovero, sorge in una posizione incantevole, da dove si possono ammirare, degradanti in verdeggianti vallate, i colli circostanti, il più alto dei quali, proprio dietro alla villa, è quello su cui sorgeva il castello degli Ezzelini. Davanti a questa nobile dimora si stende a perdita d'occhio la campagna veneta e su tutto domina, come sfondo, il massiccio del Monte Grappa. La villa sorge poco lontano da Asolo e si vede imponente dalla strada Montebelluna Bassano. È un complesso architettonico di giusta e proporzionata armonia, il cui corpo centrale, a tre piani e con un elegante poggiolo, è unito con due grandi logge, una per parte e formate da sette archi su colonne, a due torri quadrate, alte quanto il corpo centrale stesso, che limitano ai lati l'edificio. Dalla strada si vede una lunga scalinata che passa attraverso la "cedrera", uno dei rarissimi esempi esistenti di una antica tradizione delle ville venete, dove cedri e limoni sono piantati in piena terra. L'edificio è circondato da un bel parco e vi possiamo ammirare anche una chiesetta, un giardino, una barchessa e, ricavata in una massiccia torre, una "colombera". La villa è caratterizzata anche da un vasto ciclo di affreschi che decorano le due facciate principali ed il salone centrale al primo piano, essi raffigurano paesaggi immaginari, figure simboliche e scene mitologiche che richiamano quelli eseguiti da Paolo Veronese a Maser.
Sopra un ridente poggio, da cui si gode un panorama meraviglioso, sorge Villa Vignola, eretta nel XVI secolo e poi modificata nel XVIII. È un edificio quadrato, sormontato da un frontone a timpano che si ripete nella facciata posteriore, e presenta al primo piano una trifora centrale, con balaustra a colonne, i cui archi sono murati come quelli delle finestre che la fiancheggiano. Tracce di affreschi si notano sulla facciata principale, dove, sopra la trifora centrale, spicca lo stemma dei Vignola. Un'altra trifora, ma senza poggiolo, è aperta sulla facciata posteriore della villa, nel cui interno le travi sono alla sansovina. Nel grande complesso edilizio, circondato da un bel giardino, possiamo ammirare un pozzo, del XVIII secolo, sulla cui vera vi è lo stemma del casato; una barchessa, con sei poggioli e pareti affrescate; una chiesetta, il cui altare barocco è stato gravemente danneggiato durante la Prima Guerra Mondiale.
La Villa Rudelli sorge in località Sopracastello ed è una costruzione, intonacata a marmorino e con un cornicione a mensole, che risale al XVIII secolo, mentre al primo piano vi è una trifora, senza poggiolo, con archi sostenuti da colonne. Sulla facciata principale, tra le finestre del primo piano, vi sono due figure mitologiche affrescate e collocate su piedistalli entro nicchie; altri affreschi, dello stesso carattere, figurano come cariatidi sotto i davanzali delle finestre.
A Ca' Rainati, in località San Lorenzo, vi è Ca' Porcia, ora adibita a casa colonica. È un interessante edificio a un piano sopra il terreno e una soffitta con fori di originale disegno. La porta d'ingresso e le finestre al piano terra hanno l'architrave e gli stipiti a conci in pietra bugnati, mentre un bel poggiolo in pietra è posto davanti alla trifora centrale, le cui finestre laterali sono murate. Un alto frontone con trifora, in gran parte murata, è sormontato da un timpano, sul culmine del quale è collocata una campanella. In prosecuzione dell'ala destra dell'edificio, sempre con cornice dentellata, vi è una elegante loggia, formata da sette archi ribassati e in gran parte murati, posti su colonnine in pietra, a cui corrispondeva, al piano terra, un portico di quattro archi, attualmente tutti murati.
Personaggi famosi ed Artisti
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Noè Bordignon
LA VITA di LUIGI DAL BELLO 1. Infanzia Noè Raimondo Bordignon nasce a Salvarosa di Castelfranco Veneto il 3 settembre 1841, in un'abitazione di proprietà del sig. Finazzi al numero civico 43. Suo padre, Domenico Lazzaro, esercita la professione di sarto, mentre sua madre, Angela Dorella, è cucitrice. È il quarto di otto figli tutti nati a Salvarosa. II primo, Andrea Raimondo Celeste, nasce il 30 dicembre 1836 e muore dopo venti giorni. La secondogenita, Filomena Dionisia, nata il 3 gennaio 1838, si spegnerà a trentacinque anni. Andrea Bernardo (17 novembre 1839) falegname muore giovane, poco dopo il padre, il 2 gennaio 1888 lasciando cinque orfani. Il quinto, Giordano Edoardo (3 luglio 1843) apprende l'attività del padre, sposa Bordignon Angelica e non ha figli. La sesta figlia, Maddalena Giuditta (3 aprile 1845) sposata con Ferdinando Piva, si trasferisce a Valdobbiadene. Il penultimo, Luigi Antonio, nato il 4 gennaio 1847, muore dopo sedici giorni. Con la nascita dell'ultimo figlio, «un bimbo» che muore nello stesso giorno, Angela Dorella lascia per sempre la famiglia il 30 dicembre 1848 a trentasette anni d'età «per parto stentato». Noè ha sette anni, mentre la sorella maggiore ne ha dieci. Zia Maria Luigia, sorella del padre, rimasto vedovo, si prenderà cura dei nipoti. Più tardi la famiglia si trasferisce in una nuova abitazione dei signori Gritti in pieno Borgo Treviso. Noè può così frequentare le prime scuole a Castelfranco, su suggerimento di alcune persone che avevano precedentemente notato la sua attitudine al disegno. Si distingue subito nel disegno ornamentale. Il sig. Bolasco e il «Sior Nane Ruzza», proprietario della farmacia sotto la torre all'entrata del Castello, si interessano affinché il giovane frequenti l'Accademia di Venezia, sostenendolo economicamente assieme al Comune di Castelfranco. 2. All'Accademia di Venezia Si iscrive alla Regia Accademia di Belle Arti a Venezia per l'anno scolastico 1859, a diciotto anni di età . E seguito dai professori Michelangelo Gregoretti, Carlo De Blaas e Pompeo Molmenti. Fra i suoi colleghi di studio si notano Giacomo Favretto e Guglielmo-Ciardi. Nell'ambiente veneziano conosce il pittore romantico Tranquillo Cremona, col quale stabilisce una profonda amicizia. Successivamente si lega ai maggiori esponenti della pittura di genere veneziana, facente capo a Giacomo Favretto, Luigi Nono ed Alessandro Milesi. L'abilità e l'impegno lo portano a conseguire nell'anno scolastico 1861/62 la medaglia d'argento negli elementi di figura per la terza classe. Termina il corso di studi all'Accademia nel 1865 con un ottimo profitto, tanto da meritarsi una borsa governativa di studio di perfezionamento a Roma. 3. Periodo romano A Roma studia e lavora nello stesso tempo. È assiduo frequentatore del «Greco», il caffè degli artisti residenti o di passaggio per la capitale. È circondato da molti amici e da grande considerazione, che più tardi gli otterrà l'iscrizione come socio effettivo all'Associazione Artistica Internazionale. Durante questo periodo si reca anche a Parigi. Lascia Roma nel 1868 e si ferma alcuni mesi a Firenze per approfondire le diverse scuole di pittura. Qui entra a far parte dell'«Associazione degli artisti italiani». Vi rimarrà iscritto fino alla morte, figurando il suo nome tra quelli degli artisti contemporanei più noti, quali i pittori Calderini, Coprile, Ciardi, Dall'Oca Bianca, De Blaas, De Sanctis, Fragiacomo, Grosso, Maiani, Mllesi, Nono, Tito e Sezanne; gli scultori Canonica, Caradossi, Ferrari, Mayer, Ravignoli e Ximenes; gli architetti Basile, Campanini, Melani, Spighi e Stacchini. 4. Periodo castellano Nel 1869 ritorna a Venezia, dove apre lo studio a San Vie, piscina del Forner, nel 1871. San Vie però non significa abbandono di Castelfranco. Lo studio già allestito nella casa paterna continua a rimanere aperto anche come punto di riferimento e base di preparazione a quella lunga serie di opere che, iniziata nel 1869 con i primi affreschi di Castelfranco e di San .Zenone degli Ezzelini, gli assicurerà salario e notorietà nelle zone circostanti. Il decennio successivo al ritorno da Roma, fino al trasferimento a Palazzo Rezzonico, può ascriversi al periodo castellano, dominato da uno spicatissimo attaccamento all'ambiente familiare, cui Noè fu sempre particolarmente sensiblle. Amici ed ammiratori non gli mancano mai per la sua modestia, affabilità e disponibilità , oltre che per le doti artistiche. Rapporti cordiali lo legano in particolare ad Enrichetta Usuelli Ruzza, alla figlia di questa, Teresita, allo scultore Serafino Ramazzotti, novarese, ed al pittore Andrea Favero di San Zenone. Noè appare, dall'abbondante corrispondenza epistolare, il confidente di tutti i componenti la famiglia Ruzza: «Noi pensiamo sempre a voi e parliamo di voi come di un fratello. Non potete immaginare quanto vi amiamo». Madre, figlia e genero, poi, gli danno appuntamento per i riposi autunnali a San Zenone degli Ezzelini dove per la circostanza li raggiungerà l'amico Favero. Di qui si organizzano puntate a Felice, ad Asiago e fino alla riviera del Garda, alternando il riposo al lavoro ed allo svago. San Zenone per lui è la terra dei padri. Fin da piccolo imparò ad amarla attraverso i ricordi e le visite che spesso vi faceva col padre Lazzaro e con i suoi fratelli. Ed è a San Zenone che, con un'unanime decisione della popolazione, dopo il triennio romano, gli viene commessa dagli arcipreti Sforza e Bianchetto la complessa decorazione della nuova chiesa parrocchiale. Iniziati con il grande trittico del soffitto nel 1869, i lavori continuano saltuariamente' fino al 1882, intercalati a quelli eseguiti a Pagnano nel 1874, a Sant'Apollinare nel 1875, a Monfumo nel 1877. Culminano con il grandioso «Giudizio universale» dell'abside, inaugurato nel 1879. Ma nel decennio tra il 1869 e fine 1879 la sua attività si afferma anche attraverso lavori eseguiti negli studi di Castelfranco e di San Vie, oltre che nei grandi affreschi di carattere religioso e profano, tanto da ottenergli nel 1880 «una pensione governativa per merito distinto», che consiste nello «studio ed alloggio gratuito a Palazzo Rezzonico». 5. Periodo veneziano Dopo la morte del padre avvenuta il 23 gennaio 1885, la sorella Maddalena non solo cura gli interessi della famiglia a Castelfranco, ma saltuariamente si sposta anche a Venezia per seguire il fratello. Nel frattempo Noè conosce e frequenta Maria Zanchi, finché nella Pasqua del 1886, nella chiesa dei Carmini a Venezia, il parroco don Francesco Soranzo benedice il loro matrimonio che, secondo i dati dell'Ufficio dello Stato Civile di Venezia, fu celebrato civilmente il 15 luglio dello stesso anno. Maria è figlia di Francesco Zanchi, veneziano, vedovo, proprietario e gestore con il figlio Paolo di un grosso negozio di generi alimentari al ponte dei Pugni, in fondamenta Girardini a San Barnaba, vicinissimo a Palazzo Rezzonico dove si era stabilito Noè. I due sposi alloggiano in una comoda abitazione con orto proprio nel sestiere di Dorsoduro al civico 2834. Il 16 agosto 1887 nasce Anna, la primogenita, ed il 4 aprile 1889 Lazzaro, chiamato Rino, che dimostrerà spiccate attitudini alla pittura, tanto da far confondere - dicono le fonti - i suoi lavori con quelli del padre. li 26 aprile 1891 nasce il terzo figlio, Francesco, morto in Covolo il 10 giugno 1923. Durante il periodo veneziano si afferma ulteriormente la fama del pittore. Ma il suo inserimento come artista nell'ambiente accademico non è facile. Incontra l'opposizione dei rappresentanti più autorevoli della Biennale, che contestano le sue opere. Respinti i quadri «Pappa al fogo» e «Interno della Chiesa dei Frari», il pittore li invia all'Esposizione di Parigi, dove vengono premiati con medaglia d'oro. Vari sono i motivi del rifiuto da parte degli esponenti della Biennale, derivanti soprattutto - secondo le testimonianze - dalla personalità dell'artista, che non accetta compromessi con i suoi colleghi. Lui stesso afferma, ormai vecchio, «che il Ciardi lo invitò con insistenza ad affigliarsi alla Massoneria se voleva far strada»; ma non accettò e si oppose in coerenza anche con la sua fede cattolica (Bernardi). Se da un lato però si vede disatteso dall'Accademia, dall'altro può partecipare a numerose mostre in varie città italiane ed estere: a Parigi, Esposizione internazionale, nel 1878 («Fanciulli che cantano», opera premiata); a Torino nel 1880 («Fanciulle che cantano nella valle» e «Ritorno dalla scuola»); a Firenze nel 1883; di nuovo a Tarino nel 1884 («Lucrezia degli Obizi»); a Venezia nel 1887; a Roma presso la società Amatori e Cultori di Belle Arti nel 1889 («Scarpette nuove»); a Berlino nel 1894 («La cresima», opera premiata); a Sassari nel 1895 («Età beata»); ancora a Torino nel 1898 («Inizia alla carriera», «Modella in posa», «Partita a carte»); a Liverpool («Interno di Santa Maria dei Frari a Venezia», premiata con medaglia d'oro di primo grado); a Milano nel 1900; a New York nel 1902; in Cile nel 1902; a Firenze nel 1907 e nel 1908; a Berlino nel 1910 e nel 1911; ancora a Monaco, a Bruxelles, a Lipsia, a Vienna, a Palermo. Si afferma in questo modo come artista, facendosi conoscere a livello internazionale e riscuotendo apprezzamento ed interesse per il suo stile dalla critica mondiale. 6. Abbandono di Venezia Nel frattempo il contrasto col Ciardi si accuisce. A causa di un diverbio con quest'ultimo, l'artista viene accusata di provocazione ed insulti, ma è assolto dal tribunale. Le opposizioni però non terminano, tanto da indurlo ad abbandonare Venezia ed a ritirarsi a San Zenone, terra d'origine della famiglia, che gli riprometteva l'affetto delle persone semplici. Prosegue la sua attività con affreschi come «Le ore» nella villa Avogadro di Castelfranco e la «Sfilata in costume greco al tempio di Minerva» a Bassano nella villa De Micheli, distrutta dai bombardamenti nell'ultima guerra. Sono di questo periodo dodici degli affreschi più grandiosi di varie chiese della Marca Trevigiana e delle province di Venezia e di Vicenza e ventotto delle sue tele migliori. I suoi primi soggiorni sanzenonesi li aveva passati sia da solo sia con gli amici Usuelli, Favero e Ramazzotti, presso la trattoria «Alla Speranza», l'attuale casa Vinante. Questa volta però, con una famiglia di quattro persone e trattandosi di dimora stabile, per l'abitazione provvede l'arciprete mons. Bianchetto che gli cede per un modesto affitto la ex casa del cappellano don Antonio Renier e inoltre gli affida la decorazione del Santuario della Beata Vergine della Salute nell'ottobre del 1891. Il 15 agosto 1893 nascono due gemelli: Mariano Andrea detto Edoardo e Maria, il primo morto a San Zenone nel 1980, la seconda morta a Santorso nello stesso anno. Ma Venezia non è completamente dimenticata. II pittore vi ritorna periodicamente con la famiglia. Infatti a Venezia il 23 febbraio 1897 nasce Giulia, l'ultima figlia, che muore il giorno seguente. Si ripensa a Castelfranco, dove però la famiglia emigra ufficialmente solo nel novembre del 1903. Intanto per duemila lire, il 19 maggio del 1897, viene acquistata una casa di proprietà del cavalier Giuseppe Pellizzari in Borgo Treviso a Castelfranco, che la famiglia abita per praticità durante il periodo della scuola; l'abitazione di San Zenone continua a rimanere la dimora dei periodi estivi ed autunnali. Anna si licenzia dalla scuola di Compimento nel 1902 con una votazione splendida: 97 punti su 100; Lazzarino dalla scuola tecnica nel 1904 senza esami. È l'orgoglio paterno. Dotato come artista precoce, fa meravigliare maestri e compagni. Ma un attacco violento di tifo lo costringe a letto per due anni, fina a spegnerlo il 7 settembre 1906 a San Zenone, La morte del figlio, nel quale aveva riposto molte speranze per la sua attitudine alla pittura, disarma completamente l'artista, che riesce a superare il dolore continuando la sua attività . A questa prova seguono altre. Afferma il Bernardi che «la figlia Anna, in seguito ad un disappunto di carattere intimo, viene sopraffatta da una crisi di smarrimento profondo, da cui non si riprende più». La moglie Maria lo lascia definitivamente il 27 maggio 1913, dopo sei anni di infermità . 7. Ultimi anni a San Zenone L' 11 agosto di quel triste 1913 trasferisce ufficialmente la sua residenza a San Zenone, nella casa acquistata in via Pozzo Rotto, al numera civico trentanove. Nello studio, uno stanzone rustico, disadorno, o fuori all'aperto, lavora in piena libertà , le maniche rimboccate, capo scoperto, in pantofole o zoccoli, riprendendo frequentemente come soggetti dei suoi quadri i paesani che incontra. Wolf Ferrari, Alesandro Milesi, che era solito trascorrere le sue estati a Bassano del Grappa, Luigi Nono e il professor Favero sono le persone che continuano a mantenere un sincero rapporto d'amicizia con l'artista fino ai suoi ultimi giorni. Intanto nel 1917 Edoardo e Francesco, i figli minori, partono per la guerra. Caporetto pochi mesi dopo porta l'invasione delle truppe schierate alla difesa delle Prealpi sul crinale del Grappa: ogni casa è occupata. L'abitazione del pittore è messa a disposizione dello Stato Maggiore della Brigata Alpi; vi risiedono tra gli altri Beppino Garibaldi e i fratelli Ezio e Menotti. Il ritorno dei figli sani e salvi dalla guerra è un motivo di sollievo per l'artista ormai vecchia. Nell'agosto del 1920 cade a terra fratturandosi il femore. Si tenta di ingessarlo, ma non accetta l'immobilità per l'esigenza di continuare a dipingere. Si fa tagliare il gesso in modo da poter sedere sul letto e lavorare. Ma il suo fisico non riesce a superare quest'ultima prova, che si aggiunge a tutte le altre che a poco a poco l'avevano prostrato. E assistito e curato dalla figlia Maria. Muore il 7 dicembre 1920, lasciando incompiuto l'autoritratto, ultimo, significativo testimone del suo travaglio interiore e della sua abilità . II suo corpo viene sepolto accanto a quello della moglie e del figlia Rino nella tomba di famiglia nel vecchio cimitero sotto la torre di Ezzelino da Romano a San Zenone. LUIGI DAL BELLO LE OPERE PERIODO CASTELLANO (1869-1880) Oli su tela La mosca cieca (1879), cm. 71 x 95, Castelfranco Veneto, Municipio. Affreschi Apostoli, 12 in bianco e nero (1877), cm. 100 x 300, San Zenone degli Ezzelini (TV), Chiesa parrocchiale. PERIODO VENEZIANO (1881-1891) Oli su tela Bambina seduta (1890 c.), cm. 48 x 34, Venezia, San Lazzaro degli Armeni. Affreschi Confessione di San Tommaso (1891), cm. 250 x 500, Coste di Maser (TV), Chiesa parrocchiale. Pitture di cui non si conosce l'ubicazione Cortile veneziano, olio su tela, esposto a Firenze nel 1883, foto proprietà Dalla Vecchia, Santorso (VI). MATURITÀ (1892-1920) Oli su tela Autoritratto (1905 c.), cm. 65 x 45, Santorso (VI), collezione privata. Affreschi Angelo (1902 c.), arco del presbiterio, Bassano del Grappa (VI), Chiesa Istituto «Cremona». Pitture di cui non si conosce l'ubicazione L'Arcangelo Gabriele contro lo spirito del male, Rev. M. Belliaso, Raccolta opere di Noè Bordignon n. 141. Disegni Si tratta in genere di bozzetti e di studi preparatori degli affreschi. Rappresentano persone, volti o altre parti del corpo umano. Sono eseguiti a matita su cartone o carta di varie dimensioni (20 x 14, 30 x 22, 49 x 33, 50.x 35). Alcuni sono conservati nella biblioteca comunale di Castelfranco Veneto (circa 100), altri sono conservati nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, altri si trovano presso i nipoti, altri ancora sono posseduti da un collezionista privato di Milano (circa 300), altri da un collezionista privato di Piovene Rocchette. |
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Francesco Rebesco
Luigina Bortolatto Indice:
Francesco Rebesco: una vita. Dopo la guerra 1915-18 in tutte le frazioni di Comuni d'Italia sorgono migliaia di cippi, targhe, monumenti ai caduti, tanto è stato il contributo di vittime versato. Gli stessi Sacrari diventano mausolei come quello scenograficamente decorativo di Redipuglia esaltato dallo stesso D'Annunzio. La celebrazione attraverso i monumenti o la nuova toponomastica delle città dopo l'unità d'Italia aveva ricordato eroi, statisti, luoghi di battaglia che vi avevano concorso. Emblematici i monumenti disseminati in tutta la nazione eretti a Garibaldi. Francesco Rebesco si fa scultore pubblico quando prende avvio la "fictio personae" della prosopopea figurativa mussoliniana. È il 1926 e gli viene commissionato l'angelo per il Monumento ai Caduti di Liedolo. Il senso della vita che si sprigiona dal passato recente del giovane è impregnato dai colori contrastanti di due diverse realtà : il servizio militare nell'arma aeronautica dal 1917 al 1920, la frequenza dell'Istituto d'Arte Sacra "Beato Angelico" di Milano dal 1922 al 1925. I'esperienza del volo, durata oltre 20 anni, denota doti di coraggio, di energia, di straordinaria efficienza. Al vitalismo del giovane aeronauta è dedicata una raccolta di testimonianze fotografiche storiche e singolari insieme. Tra le lunghe file degli incorporei biplani, libellule che attendono di librarsi sopra il cielo di Muggia, i campi si spostavano seguendo l'andamento delle battaglie terrestri, il volto del navigatore aereo, spesso accanto a quello di vivaci colleghi, più che smanioso di far colpo sembro intento a considerare la misteriosa cassetta, esploratrice del transitorio e dell'istante che va fermato. Una baldanza che la castità del bianco e nero segna nell'occasione sbiadita e nelle sue metamorfosi. Così viene fissato un mondo in formazione che avvicina Bocchese, Pellizzari, Mario De Bernardi, destinati a successive imprese di volo, a Rebesco che, rinunciando all'incarico di collaudatore, dopo la guerra insegue un altro mito per esprimere il senso del tempo e della morte. Assorbito per due anni dalla Scuola d'Arte e dai corsi liberi dell'Accademia di Venezia, è il primo allievo iscritto nel novembre 1922 al corso di scultura della Scuola Superiore d'Arte Cristiana di Milano, fondata fanno precedente. L'Istituto, nato con l'intento di preparare, con una determinata educazione religiosa unica a un tirocinio tecnico-manuale, gli artisti che desiderano lavorare nel campo dell'arte sacra, vanta fin dall'inizio prestigiosi maestri, dall'architetto Gianluigi Banfi a Giuseppe Polvara, sacerdote, architetto, pittore e intenso pubblicista. Polvara, che a conclusione dell'apprendistato milanese offrirà a Rebesco l'insegnamento, dirige la rivista "Arte Cristiana" che, in modo diverso dall'autorevole "Civiltà Cattolica", propone un eclettismo figurativo con larghezza di vedute senza preconcetti di metodo o di scuola. Per "assegnare all'arte ispirata al Cristianesimo un posto distinto e a se` si varano strumenti specifici: creazione di un nuova struttura didattica, occasioni espositive di prodotti artistici sacri, sollecitazione di un nuovo mecenatismo. Inserite in contesti ufficiali delle vicende ateistiche del tempo, le sezioni di Arte sacra, nelle Mostre di Arte decorativa di Monza e nelle Biennali romane, propongono l'arte "liturgica" connessa con le esigenze del culto e una casistica di immagini di ispirazione religiosa che, manifestandosi con arbitrarietà iconografica o formale, viene recuperata nell'ambito di arte "devozionale-spiritualista". Se più tardi "Arte Cristiana" (1933) nelle Esemplificazioni considera che "il senso divino del Vangelo è interamente espresso" nell'Annunciazione dell'Angelico, mentre "orribilmente realistica" viene presentata l'Annunciazione di Tintoretto, l'autorevolezza della fonte di queste considerazioni sono i giudizi della stampa cattolica relativi ai discorsi papali. Per cui Ojetti, critico cattolico, potrà sostenere che "agli antipodi dell'arte da altare sono il verismo, l'impressionismo, il cubismo, il futurismo, l'espressionismo" ('). 1) Arte Cristiana, 1913. La funzione celebrativa e devozionale Agli inizi della sua attività , Rebesco aderisce a tematiche religiose, che costituiscono il complesso più nutrito della sua scultura, con il sapiente e solido modellato dell'Angelo trombettiere di Liedolo. La posizione alta della figura diventa per il giovane artista la tentazione di ingrandire, di esasperare. La sfida ai secoli con un'opera che resti inserita in un contesto urbano preesistente, sottoposta per molto tempo del percorso, dall'alta gradinata della Chiesa al microscopio di ogni persona, accentua le capacità organizzative di Rebesco, La scelta del soggetto per commemorare i caduti, tra immagini di gloria, la Vittoria alata, o dolente commento funebre, la madre che accoglie tra le braccia l'eroe morto, è piuttosto insolita. La commessa pubblica, politico-amministrativa ed ecclesiastica, quale ruolo ha assunto nell'individuare il tema. 1) Treviso, Museo Civico. La funzione commemorativa nell'elaborazione del dolore. In Occidente fin dall'800, al seguito del decreto napoleonico (1804) che espelle i cimiteri dal centro della città e in conseguenza della nuova ragione scientifica, la tanatofobia, processo di rimozione dell'idea di morte, favorisce per i defunti la celebrazione laica della vita in terra. Ancor oggi la statuaria cimiteriale, per reintegrare il dolore nella vita, continua a raffigurare la perdita nei tratti della sensualità o della disperazione. Nel senso di perpetuare la memoria, la scultura funeraria per Rebesco è commemorativa e predilige temi religiosi simbolici: la Pietà , scene della vita di Cristo. Appartiene al repertorio biblico anche se caratterizzato in campo profano l'Adamo dolente nel Cimitero Monumentale a Milano. Il bel bronzo ha diretti ascendenti iconografici: un ignudo della volta e un dannato della parete della Sistina e il Pensatore di Rodin. Rebesco rinuncia alla muscolatura imponente e all'impressione di forza che sprigiona l'opera del francese per esprimere il movimento esteriore attraverso la posa. Punità della composizione si evidenzia per la continuità di piani silenziosi e si anima per parti luminose che attraggono la sensibilità . Se in Adamo, altra scultura che faceva parte originariamente de "La porta dell'inferno" (1980-1900), Rodin vedeva un perdente, il capostipite di Rebesco, seduto con il dorso curvato e la testa inclinata sull'avambraccio, sembra riflettere dinanzi alla drammatica solitudine dell'uomo e meditare sul suo destino. Tradizionalista nella forma, dietro ad una concezione plastica conservatrice la donna con bambino dal Cimitero di Coste, permeandosi di sentimenti umani passa dalla sfera sacra a quella profana. La delicata invenzione del fiore che la donna sta per lasciar cadere sulla tomba mentre il bimbo ancora lo trattiene, la mesta inclinazione delle teste che guardano in basso, il braccio nudo della donna, il corpo sinuoso oltre le pieghe della tunica trattenuta in vita, significano reazione romantica suscitata dal sentimento e dall'emozione, che ha radici nell'espressionismo lirico, ma anche atteggiamento più realistico di matrice classicista nell'analizzare soggetti naturali. Impersonale, quasi stereotipata è l'immagine dell'Assunzione di Maria del rilievo sulla stele Filippin di Paderno La struttura triangolare della figura, interrotta dal gesto delle braccia sollevare, si anima nel racconto degli angioletti diversamente deposti tra le nuvole. Osservante rispettoso e conservatore Rebesco si riscatta quando non rinuncia ad inserire le vibrazioni di un dramma nell'intemo del sentimento e della coscienza. Nelle sue Pietà , genere melodrammatico, ricerca effetti intensi dove i protagonisti, a tutto tondo o 2 rilievo, riempiono completamente lo spazio della scena degna di attenzione, meditata sulla Pietà Rondanini di Michelangelo, è situata al centro del monumento ai Caduti del cimitero di San Martino di Lupari, opera già citata nel suo complesso. Riprendendo un'immagine sconosciuta all'arte cristiana fino a Michelangelo, Rebesco propone il corpo palpitante di Gesù, sollevato in piedi e sostenuto da Maria, presagio di resurrezione. Rinserrando il torso di Cristo in quello della Vergine, il Bambino rinasce dal corpo materno. La fusione delle due figure, erette, accentua lo slancio verticale senza obliare la bellezza apollinea dei corpi e dei volti. A Bassano nel Cimitero di S. Trinità entro linee curve di un sottile rilievo il dolore di Maria, permeato di delicata mestizia, assume toni elegiaci interrotti nella forte caratterizzazione del volto. Con venete memorie, dal Giambellino al Montagna, Rebesco affronta la poetica purista e neoclassica del Novecento italiano sublimando i sentimenti in un linguaggio prezioso, con impiego della raspa per i tessuti, abito, manto e perizoma dei protagonisti, e del trapano per i ricci a forma di esse della testa di Cristo. In un'altra sepoltura, dove il linguaggio è ancora più ricercato nei decorativismi astratti degli abiti, la formula semplice di un dolore domestico risponde a esigenze, intelletuali e incolte insieme, del realismo magico. Ridondante, aperta, frontale, con la forza della suggestione dell'ampio gesto di Maria che tiene sollevato il braccio morto del figlio, e l'inusitata veste ricadente in larghe pieghe sulla base della scultura, la Pietà nel Cimitero di Marostica ha nostalgia della morte e della bellezza. Più articolata a guadagnare spazio fisico e mentale, influenzata inconsciamente dai grandi modelli michelangioleschi e canoviani o contemporanei come Libero Andreotti °1, l'ispirazione, lo stile di esecuzione e il messaggio affettivo che trasmette, collocano l'opera nell'ambito della tradizione della scultura veneta, immersa nell'atmosfera, per le vibrazioni dei piani, per il palpito e il respiro del ritmo che è lo stesso dell'universo. Prendendo impulso dalla luce e dalla sua distribuzione, la vita anima la struttura e risveglia il nostro sguardo. Nell'artificio della forma costruita sulla diagonale della figuro, ora non più in posa frontale, particolare forza poetica di suggestione ritrova la Pietà della tomba Testolin nel cimitero di Thiene. Non avara di citazione la sottile malinconia del linguaggio elegiaco è contaminata dal dolore inteso come passione, come amore struggente. La scena si inserisce nel paesaggio locale tra pause e sospensioni, per giungere fino a noi poema della tristezza umana. Un urlo sordo, strano, declamatorio e teatrale, proviene dalla donna dolente ai piedi della croce nella tomba De Lorenzi. II sentimento di paura, sprofondato sotto il peso della veste, si aggrappa al simbolo del sacrificio di Cristo. Le otto lastre arcuate a rilievo inserite nella facciata della Cappella Cecchele del camposanto di Rossano Veneto appartengono all'area del già tirato realismo neoclassico, per nobiltà e limpidezza. Tra naturalità e incanto si tratta di una riscrizione di soggetti religiosi severa e trasparente, soprattutto nell'Ascensione e nella resurrezione di Lazzaro. Chiamato da Gesù, stretto nelle bende, con il sudario sul volto, in ginocchio, Lazzaro simboleggia la pietà di Dio. E Rebesco sembro dichiarare in questa resurrezione, e più ancora nell'altorilievo con lo stesso soggetto della tomba Chiuppani, quanto sia più importante della stessa creazione, essendo la morte unica nemica di Dio. L'integrazione fra architettura e scultura non solo in questo caso, è una scelta chiara in cui, eliminato il superfluo e il gratuito, la cappella funeraria, nella sua interezza, acquista dignità e valore espressivo. Progettata da Francesco Bonfanti nova un sorprendente equilibrio dei termini pubblico (il cimitero) e privato, necessari in uno studio sulla sociologia delle masse nell'architettura avviata negli anni Trenta e ripresa nell'edilizia del dopoguerra, all'insegnar di quella cifra. Integrata nella natura del luogo si presenta con una sua autonomia in quanto opera dell'uomo raziocinante che nega ogni mimesi analogica con il circostante. I profili netti che ricompongono la scatola narratoria si ripetono negli archi delle lastre decorative dove l'architettura del racconto è un invito alla meditazione e al silenzio. 1) Firenze, Santa Croce. Biografie drammatizzate Se il genere ritratto pareva non esistere più, saldamente trasmesso nelle mani dei fotografi, oggi è ancoro mezzo ottimo per colmare la sete di sopravvivenza. Cambia il committente: non più qualcuno interessato a lasciare memoria delle sue sembianze, mala esigenza, la necessità , la opportunità di fomite fattezze e lineamenti a chi è bene additare come esempio di grandezza, o ricordare nelle sue sembianze come affetto vissuto da perpetuare. Si tratta quindi di persone care, talvolta ubicate anche sul luogo della sepoltura, b presenze in campi particolari: ecclesiastici, politici, socialiculturali, situati allora nei luoghi adatti, soprattutto scuole o ambienti della collettività . Può sembrar strano che nei suoi ritratti Francesco Rebesco, più che lasciarsi trascinare dall'impulso, abbia agito psicologicamente attraverso l'intuizione mettendoci in comunione con il modello, guidandoci verso le sue abitudini, il suo carattere. Nel museo dei suoi personaggi recuperiamo spesso il potere evocatore di un tempo perduto. Antonio Canova, costruito sull'autoritratto dell'artista, ha occhi che guardano lontano, attento a capire oscure parole di santi e di eroi. Nel busto bronzeo di Noè Bordignon, caricato dagli emblemi di pittore, pennelli e tavolozza, è sufficiente lo sguardo volto altrove a indicare (amore dell'artista esteso ad una poetica cosmogonia, fedele a un patrimonio secolare. Confrontato con l'autoritratto incompiuto, di mano dello stesso Bordignon, ne toglie i caratteri di fiduciosa aderenza a valori sentimentali delle scene di genere per una visione che passa dall'assenza all'essenza. Altrove, come nel volto di Edmondo De Amicis, Rebesco sembra cercareÃ" simboli di natura psicologica. Nel marmo bianco il tempo incontaminato si protrae nell'assoluto con forme classicamente levigate, appena mosse nei capelli e nei baffi increspati, celebrazione sentimentale di nobili valori della vira. Sfuggente da un discorso spiegato, su delicata immagine di ombra e di luce insiste il ritratto di Teodoro Wolf Ferrati dove un moderno sentimento contraddittorio, affidato al tenue respiro delle superfici, dona rimescolamenti emotivi. Staccato e chiuso in un elegante formalismo il busto di Milly Wolf Ferrati si conclude nella forma geometrica del triangolo, resa accattivante dal merletto della veste. Simile soluzione presenta il ritratto di signora definito nel rettangolo della pelliccia. Al perfetto frontalismo di Milly lo scultore, in questo busto, sostituisce una leggera inclinazione della testa. Un'aristocratica bonarietà diventa strumento di cattura dì un reale inafferrabile, mende il medaglione sul petto richiama valori di simmetrico equilibrio. Invitante a tre quarti, le mani serrate su steli fioriti e a trattenere 1o scialle sul seno, il severo volto giovinetto della sposa dell'artista sembra condurre alla visione di un mondo superiore, mentre immagini pensierose fermentano dietro la vaghezza di un delicato busto muliebre in terracotta, irrompendo come apparizioni. Il perfetto rigore formale dei busto di bambina con il colletto e il fiocco sui capelli identifica la moda dell'epoca e conduce all'ultima stagione di Novecento nei termini di naturalismo più che di purismo astratto. L'esplorazione della psicologia femminile ispira alla scultore una galleria di volti intensi, ceneri ma anche enigmatici. L'eccessiva attenzione e la levigatezza formale, che documentano una particolare facilità di plasmare la materia e di cogliere sfumature caratteristiche delfespressione umana, può essere a volte discutibile, ma testimonia un tempo. Se la tipologia di questi immagini è in rapporto con più orientamenti della cultura figurativa europea fino alla conclusione del IV decennio del secolo, il bipolarismo tra avanguardia e reazione, su un concetto di aree fedele a forme plastiche, romite, silenziosamente sospese nell'atmosfera è quasi un'inclinazione a travagli affettivi. Il classicismo modernizzato de l'acquaiolo, modellato molto tempo prima della sua esecuzione in marmo, mette in gara Rebesco con il bevitore (1926) e il Palinuro di Arturo Martini. La figura umana, destoricizzata drammaticamente per un'inedita forza sintetica e dinamica nella positura, utilizza elementi stilistici di un classicismo ideale nel racconto in un gioco sospeso tra forre e il ragazzo. Invenzione creata dal desiderio è spine, storia di un sentimento, di ma passione riproposta alla memoria, figura femminile nuda affidata al vibrare continuo del segno, insieme simbolico e altamente decorativo. Quale mezzo congeniale di espressione, nel suo puro gesto lezioso la donna tocca la rosa, a palpebre abbassate, riversa sulla sfera (come scena del mondo?). Nei busti commemorativi di prelati e sacerdoti il deferente distacco dell'autore non scava sempre nelle passioni che rendono il singolo vivo e palpitante. I volti, spesso ricostruiti da fotografie, nei ritratti in questione superano quell'istante che fante spietata del transitorio cerca di carpire. In queste figure intime e accurate, gli emblemi, come la croce latina, simbolo dell'autorità ecclesiastica, o il cuore dei Passionisti, o la presenza degli occhiali, distraggono appena per far prorompere l'intensità dei volti. Gli ascendenti culturali, le testimonianze parallele sono a volte presenze dirette, come Canova o Wildt, nei ritmai di Antonangelo e Marcantonio Cavanis. Creazione oggettiva e contemporaneamente esaltazione del soggetto è il ritratto di mons. Filippin. Il confronto con la natura, l'accentuarsi dei valori espressivi, fazione che supera se stessa, il rapporto con l'esperienza inducono Rebesco a inventare e creare un personaggio anche alterando la verità , in un documento straordinario. Altro penetrante ritratto è il bambino con zufolo. Svincolato da qualsiasi remora imposta da necessità ufficiali o celebrative il temperamento volitivo del piccolo, nello sforzo di gonfiare le gote, è colto splendidamente e il volto offre superfici palpabili, vive. Aiutato anche dalla scelta della materia legno, la fantasia di Rebesco, adoperata con slancio, si nutre nell'accurata descrizione del volto di Italo Balbo. Capelli, sciarpa, persino la barba, agitati e mossi del vento, esaltano più che il personaggio l'idea del volo. Come se l'artista, in questo documento, volesse celebrare la sua storia e il suo ciclo di vita. Mentre il robot Sojourner dalla sonda Pathfinder inizia a esplorare il pianeta rosso, penso alle illuminanti immagini create per l'avventura dell'uomo sulla luna (2). Icaro, senza precipitare, sale sorreggendo l'astronauta. Per inserire le vibrazioni dello scultore all'interno della coscienza e dei sentimento, il figlio di Dedalo può raccontare un modo nuovo e drammatico di esistere tra Pegaso, scala, biplano, razzo e mongolfiera... 1) (opera va confrontata con il monumento a De Amicis, eseguito da Edoardo Rubino nel 1923, a Torino, nei Giardini di Piazza Carlo Felice. |